Rivista QdF Maggio 2014
Rivista QdF – Questioni di Diritto di famiglia – Maggio 2014
QdF – Una rivista mensile di approfondimento dedicata al diritto di famiglia,dal quale estrapoliamo gli articoli redatti dal nostro staff di professionisti.
In questo numero : Dottrina
• I diritti del coniuge superstite ex art. 540, comma 2°, c.c. – Francesco Reposo –
• Legge 40 del 2004: cade il divieto di fecondazione eterologa – Chiara Reposo –
I diritti del coniuge superstite ex art. 540, comma 2°, c.c. – Francesco Reposo
La norma di riferimento, l’articolo 540 comma secondo, c.c., collocato, com’è noto, nella parte del libro II dedicato ai diritti spettanti ai legittimari ed alla loro tutela, rintraccia la sua ratio nell’intento di tutelare il coniuge superstite, non solo da un punto di vista eminentemente patrimoniale, ma anche e soprattutto sotto il profilo etico, morale e sentimentale, ritenendo all’uopo che la ricerca di una nuova abitazione rappresenti grave nocumento psicologico e materiale per la stabilità di vita e di abitudini del coniuge superstite. La dottrina dominante è concorde nell’affermare che i diritti di abitazione ed uso, di cui all’art. 540 secondo comma, c.c., costituiscano oggetto di una vocazione anomala (1) a favore del coniuge, ovvero di una chiamata a titolo particolare, indipendente dalla chiamata nell’intero od in una quota del compendio ereditario, che, non traducendosi in una precipua disposizione testamentaria, pone in essere, ex plurimis, un legato ex lege. Tuttavia la specifica determinazione legislativa dell’oggetto del lascito lo ha fatto qualificare alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, variabilmente, come legato o prelegato ex lege. Innanzitutto è doveroso sottolineare che, nonostante una recente pronuncia di legittimità in tal senso (2) ritenere l’attribuzione de qua un prelegato tout court non è corretto: non sempre, infatti, si verificano i due presupposti richiesti dall’articolo 661 c.c. (legato a favore del coerede e a carico di tutta l’eredità).
La collocazione della norma nell’ambito dei diritti riservati ai legittimari ed il criterio di imputazione del valore del diritto di abitazione (prima a carico della disponibile e poi della riserva) non è armonizzabile con il sistema dettato dall’articolo 662 c.c. il quale, viceversa, utilizza un parametro di imputazione soggettivo. La propensione per la tesi, ut sopra citata, che appare preferibile, è foriera dell’immediata conseguenza che il conseguimento di detti diritti, da parte del coniuge, spetterà ipso iure ai sensi dell’art. 649, cpv., c.c. e quindi senza necessità di accettazione, fatta comunque salva la facoltà di rinuncia (3). L’acquisto di detti diritti non è affatto pregiudicato da una eventuale rinuncia del coniuge alla propria quota di eredità (4) effettuata ai sensi dell’art. 519 e seguenti del codice civile. I diritti di abitazione ed uso si attivano solo in presenza di determinati presupposti:uno di natura soggettiva ed un altro di natura oggettiva. Viene, innanzitutto, in rilievo il presupposto di natura soggettiva. L’articolo 540, secondo comma, c.c., fa generico riferimento al “coniuge” per indicare il soggetto a favore del quale vengono disposti i diritti de quibus. La dottrina, rileva quindi, come il disposto normativo de quo individui, nel solo soggetto legato al defunto da vincolo attuale di coniugio, la titolarità dei diritti medesimi, escludendone, in modo assoluto, la sussistenza in capo al divorziato superstite, la cui tutela successoria è garantita dall’art. 9 bis della legge 898/1970 “Legge sul divorzio” tramite un assegno periodico a carico dell’eredità. Quindi il presupposto di natura soggettiva viene rispettato nella misura in cui, al momento di apertura della successione, sussista un valido rapporto di matrimonio, ossia del medesimo titolo successorio richiesto per la successione ai sensi del 1° comma dello stesso articolo; deve pertanto esistere un coniuge superstite al momento dell’apertura della successione.
Detto presupposto soggettivo è rispettato anche se il coniuge superstite sia separato senza addebito: infatti l’articolo 548, comma 1°, c.c., attribuisce al coniuge separato senza addebito gli stessi diritti successori spettanti al coniuge non separato, per cui dovremmo – sulla base di un’applicazione letterale e rigorosa della norma – affermare che gli spetti anche il diritto di abitare la casa familiare. Occorre precisare, però, che, in concreto, è opportuna una verifica circa la situazione creatasi in seguito alla separazione, con la logica conseguenza che i diritti di cui trattasi non potrebbero essere attribuiti al coniuge superstite nell’ipotesi in cui, a causa della separazione, non vi sia più una casa adibita a residenza familiare (5). Vi è da dire, anzi, che, per autorevole dottrina e certi pronunciamenti giurisprudenziali, proprio l’impossibilità di individuare, a seguito della separazione personale dei coniugi, una casa adibita a residenza familiare, farebbe venire meno il presupposto per l’attribuzione dei diritti di cui all’articolo 540, comma secondo, codice civile. Altra questione controversa, è ravvisabile nel caso in cui, dichiarata la separazione, il coniuge superstite sia assegnatario della casa adibita a residenza familiare; risulta ostico disciplinare il rapporto fra il titolo giudiziale di godimento dell’immobile ed il titolo di fonte legale. Certa dottrina sostiene che il coniuge superstite continui a godere dell’immobile in forza del titolo giudiziale, potendo avvalersi della fonte legale ex art. 540, secondo comma, c.c., solo dopo che siano venuti meno i presupposti del titolo legale.
Altra dottrina (6), invece, rilevato che l’articolo in questione assicura un diritto reale e vitalizio, sostiene che, sin dall’apertura della successione, il coniuge superstite separato avrebbe titolo ed interesse a far valere tale diritto, in luogo del godimento giudiziale che garantisce solo un diritto personale ed a termine. Viene, poi, in rilievo, quale presupposto oggettivo, indispensabile per l’operatività della disciplina in oggetto, l’esistenza di una casa adibita a residenza familiare di proprietà del defunto o comune. La proprietà, però, deve essere piena: non è pertanto sufficiente la titolarità della nuda proprietà in quanto non legittima ad abitare la casa. Il problema, invero, riguarda il significato da attribuire all’espressione “comuni”. L’interpretazione restrittiva, secondo cui tale termine si riferisce alla sola ipotesi della comunione legale o convenzionale tra i coniugi, si basa sulla considerazione che, ove il comproprietario sia un terzo, non si realizzerebbe l’intento legislativo di assicurare il concreto godimento della casa al coniuge superstite; e l’ulteriore considerazione che gli altri comunisti si troverebbero gravata anche la loro quota. Per ragioni di equità e di tutela del coniuge, altra dottrina, tuttavia, considera incluse nell’espressione del codice anche le ipotesi di comproprietà di soggetti estranei. Sembra preferibile, in dottrina ed in giurisprudenza (7), la tesi restrittiva per prima riportata, in quanto l’espressione “ se di proprietà del defunto o comuni” di cui all’art. 540, secondo comma c.c. deve essere interpretata nel senso che la proprietà deve appartenere al defunto od ad entrambi i coniugi, secondo le regole della comunione ordinaria legale di cui agli artt. 177 ss. c.c. Come sopra detto, il diritto di abitazione di cui all’art. 540, secondo comma, c.c., ha ad oggetto “la casa adibita a residenza familiare” che, ai sensi dell’art. 144 c.c. , deve essere identificata, in via generale, con il luogo ove si è svolto, in modo prevalente, il menage familiare.
In dottrina (8), quindi, viene escluso in modo pacifico che possano essere ricompresi nella nozione di “casa”, cui fa riferimento la disposizione in commento, le cosiddette seconde case, utilizzate per i periodi di vacanza. E’ discusso, diversamente, quale sia la disciplina applicabile nel caso in cui la famiglia, per contingenti ragioni di lavoro od anche in considerazioni delle sole condizioni economiche, utilizzi, con sistematicità e continuità, più case. Pare prevalente in dottrina (9) l’opinione secondo cui sia in ogni caso necessario individuare, fra le case utilizzate, quella che possa considerarsi adibita a residenza familiare, sulla scorta i criteri di natura oggettiva e soggettiva. Non manca, tuttavia, chi (10) ritiene, in detto caso, che sia possibile che il diritto di abitazione, previsto dall’art. 540 secondo comma c.c., abbia ad oggetto più immobili. Meno controversa , invece, appare l’individuazione dell’oggetto del diritto d’uso; per espressa previsione normativa, il diritto d’uso cade sui mobili che corredano la casa adibita a residenza familiare. L’espressione “mobili che corredano” deve essere intesa in senso ampio, non riferendosi all’esclusivo mobilio, ma anche ad ogni altro bene mobile interno all’abitazione che ne consenta ed agevoli l’abitabilità e che favorisca il menage della famiglia. Tale diritto non abbraccia i beni mobili che, pur avendo lo scopo di arredare l’abitazione, rappresentino, in realtà, forme di investimento o strumenti per l’attività lavorativa, tenuto altresì conto del tenore di vita della famiglia e della professione svolta dal coniuge.
L’art. 548, 1° comma, c.c., come già specificato in corso di trattazione, stabilisce che il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato, ai sensi del 2° comma dell’art. 151 c.c., ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. In ordine all’attribuzione dei diritti di abitazione e di uso sono state avanzate due teorie:
a) Teoria negativa. Secondo una parte della dottrina, lo stato di separazione dei coniugi determina, di necessità, la mancanza del fondamentale requisito richiesto dalla legge per il sorgere dei diritti di abitazione e d’uso, ossia l’effettiva esistenza di una casa familiare.
b) Teoria positiva (preferibile). L’opinione preferibile è nel senso che, dovendo essere impedito un forzoso mutamento dell’ambiente di vita, il coniuge superstite è titolare dei diritti in esame, ogni qualvolta abbia continuato a vivere nella casa già adibita a residenza familiare, vuoi in forza di accordo con l’altro coniuge, vuoi perché affidatario della prole (ex art. 155, comma 4°, c.c.) .
Per quanto concerne la posizione ereditaria del coniuge putativo, pur essendo essa espressamente regolata dall’art. 584 c.c. nell’ambito della disciplina delle successioni legittime, deve intendersi del tutto parificata, anche in relazione alla qualità di legittimario, a quello del coniuge unito al de cuius da valido vincolo matrimoniale fino a quando non intervenga il passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la nullità del matrimonio. Infatti, prima del passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la nullità, si producono gli stessi effetti del matrimonio valido a favore del coniuge putativo; il che, a significare, che ,se la successione del defunto si è aperta prima del passaggio in giudicato della sentenza che dichiara nullo il vincolo matrimoniale, il coniuge putativo superstite godrà della medesima posizione successoria riservata dal legislatore al coniuge superstite unito al de cuius da valido matrimonio. Pertanto, ove al momento della morte del de cuius tale passaggio si sia ormai verificato, il coniuge putativo non potrà più vantare alcuna pretesa successoria.
Può accadere, tuttavia, che venga a crearsi il concorso del coniuge putativo con il coniuge legittimo del defunto bigamo e gli scenari successori possibili possono essere i seguenti:
– l’esclusione del coniuge putativo dalla successione. Infatti, nonostante quanto espressamente previsto dal 2° comma dell’art. 584 del codice civile, il coniuge putativo “resta escluso dalla successione quando la persona della cui eredità si tratta è legato da vincolo matrimoniale al momento della morte”;
– oppure, e questa sembra la soluzione preferibile in dottrina e giurisprudenza, si deve ritenere che il coniuge putativo non resti irrimediabilmente escluso dalla successione, bensì assuma un grado postergato a quello del suo concorrente, eventualmente subentrandogli ove quest’ultimo non possa o non voglia accettare l’eredità.
La dottrina esclude, nettamente, che il convivente more uxorio abbia i diritti d’abitazione e d’uso.
Dott. Francesco Reposo
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Legge 40 del 2004: cade il divieto di fecondazione eterologa – Chiara Reposo
La legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita (PMA), approvata nel 2004, prevedeva una serie di divieti e obblighi come quelli della creazione di soli tre embrioni (1) e loro contemporaneo impianto, di crioconservarli, della diagnosi genetica pre-impianto (2) che, dal 2004 a oggi, varie sentenze della Corte Costituzionale e dei Tribunali Civili hanno, “chirurgicamente”, smembrato. Va detto che la normativa, benché di non facile venuta alla luce, prevedeva ab origine, innovazioni intelligenti e funzionali quali, I) la possibilità di ricorrere alle tecniche di PMA ancheper le coppie in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili – in particolare del virus HIV e di quelli delle Epatiti B e C – riconoscendo che tali condizioni siano assimilabili ai casi di infertilità (per i quali, soli, è concesso il ricorso alla PMA), alla luce di un elevato rischio di infezione per la madre e il feto conseguente a rapporti sessuali non protetti con il partner sieropositivo; II) la necessità, data la tensione emotiva derivante dal sottoporsi alla fecondazione assistita, per ogni centro per la PMA, di assicurare la presenza di un adeguato sostegno psicologico alla coppia, predisponendo la possibilità di una consulenza da parte di uno psicologo adeguatamente formato nel settore.
Fino al giorno, 9 aprile 2014, tuttavia, nella civilissima Italia, se uno dei due partner di una coppia risultava sterile, ci si trovava costretti, per provare a realizzare il proprio desiderio di genitorialità, ad intraprendere i c.d. “viaggi della speranza” all’estero (3): secondo uno studio condotto da ESHRE in collaborazione con la Società italiana di studi di Medicina della Riproduzione (Sismer) sul turismo riproduttivo, su 25mila coppie che ogni anno si spostano in Europa, 10mila sono italiane; si tratta generalmente di coppie eterosessuali, sposate (82%) o stabilmente conviventi (18%); l’età media delle donne è di 37 anni e mezzo; il 27% ha meno di 35 anni, il 41% tra 35 e 40 anni, il 25% tra 40 e 44 anni e solo il 7% tra 45 e 50 anni ; il 60% circa delle coppie voleva eseguire trattamenti illegali in Italia, quali donazione di seme, donazione di ovociti e diagnosi genetica pre-impianto. Dopo dieci anni di sentenze (4), che di fatto hanno demolito, pezzo dopo pezzo, la normativa da qua, cade, oggi, il “pilastro” più importante della legge 40 sulla fecondazione assistita, cioè il divieto di fecondazione eterologa, vale a dire con gameti di un donatore esterno alla coppia: la Corte Costituzionale ha, infatti, giudicato illegittimo il divieto, accogliendo i ricorsi presentati dai Tribunali di Milano (5), Firenze e Catania, sollecitati a loro volta dai ricorsi di altrettante coppie sterili.
Quanto al divieto di fecondazione eterologa, il primo accesso alla Corte Costituzionale muove da un’altra decisione della Corte EDU, emessa nel 2010 nel caso “S.H. contro Austria”, stato nel quale vige analoga proibizione, ritenuta nell’occasione contraria ai principi dell’art. 14 della CEDU, in combinato disposto con l’art. 8 (6). La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma della legge 40 che vieta il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta bocciando gli articoli 4, comma 3, 9, commi 1 e 3 e 12, comma 1, della legge 40: questi prevedevano il divieto assoluto di fecondazione attraverso donatori esterni e sanzioni per i medici che la avessero praticata. Con la decisione presa dalla Consulta sulla legge 40 cade, dunque, innanzitutto il divieto di fecondazione assistita eterologa, previsto dall’art. 4 comma 3 della legge, che riportava: «È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo» e, conseguentemente, i due incisi che recitano entrambi «in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3», cioè del divieto di eterologa, previsti nei commi 1 e 9 dell’art. 9, che resta ovviamente immutato per le altre parti e per i suoi contenuti, compreso il divieto di disconoscimento di paternità in caso di eterologa. Incostituzionale, infine, anche l’art. 12 comma 1 sulle sanzioni: «Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300mila a 600mila euro».
Si tratta della classica “sentenza di accoglimento”, con la quale, quando la Corte dichiara l’illegittimità di una norma, la medesima cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, non potendo più trovare applicazione, divenendo un “guscio vuoto” che non può più spiegare effetti: deriva da ciò che le predette pronunce hanno efficacia erga omnes, acquistano valore di sentenze di accertamento costitutivo, con l’effetto di annullare le norme dichiarate illegittime e, dunque, si applicano a tutti i rapporti in qualche modo ancora pendenti, vale a dire non esauriti, avendo in linea di massima, salvo espressa limitazione degli effetti temporali contenuta nel provvedimento stesso, efficacia ex tunc (7). La vicenda, ovviamente, travalica le storie personali, perché la decisione della Consulta era attesa da tante persone che, a causa di una infertilità assoluta, possono sperare solo nella donazione esterna di ovuli o spermatozoi per avere un bambino: per costoro, la cancellazione del divieto di fecondazione eterologa significa vedere riconosciuto il diritto a essere genitori, ad essere famiglia e, quindi, a formare una famiglia. Le ordinanze dei tre Tribunali rimesse, circa un anno fa, alla Corte Costituzionale ponevano l’accento proprio su quest’aspetto e lo sviluppavano prospettando la violazione di numerosi articoli della Costituzione: dall’articolo 2 sui diritti inviolabili dell’uomo all’articolo 3 sul principio di uguaglianza; dal 29 sulle tutele alla famiglia al 31 (8) sulla tutela della maternità (9); dal 32 (10) sul diritto alla salute al 117 sui vincoli rispetto all’ordinamento comunitario.
L’art. 2 Cost. afferma il principio personalista, che colloca la persona umana, nella sua dimensione individuale così come in quella sociale, al vertice dei valori riconosciuti dall’ordinamento giuridico: l’individuo è considerato parte integrante della comunità, inserito perciò in una rete di rapporti sociali, nel cui ambito si creano le condizioni per lo sviluppo della sua personalità. Le “formazioni sociali” (quali sono, ad esempio, la scuola, i partiti, i sindacati, le collettività locali, le confessioni religiose, la famiglia) risultano, dunque, fondamentali per la crescita dell’individuo e questo spiega perché, sulla base del principio pluralista, ad esse vengono riconosciuti e garantiti gli stessi diritti dell’individuo e fra esse la coppi, che la si intenda come famiglia di diritto o di fatto. La norma, comunque, ponendo sullo stesso piano i singoli e le formazioni sociali, presuppone anche l’idea che nessuna libertà collettiva possa prescindere dalla libertà dei singoli. Nella parte finale dell’articolo viene affermato il principio solidarista, in virtù del quale ogni cittadino ha il dovere di operare a vantaggio della comunità. La personalità di un individuo, a parere della scrivente, si esplica in maniera completa nella opportunità concessa allo stesso di sviluppare il proprio essere a 360° e, quindi, a maggior ragione, attraverso la possibilità di generare, che non deve essere privilegio riconnesso alla pura e semplice “capacità e idoneità anatomica” ma d. inviolabile ricollegato direttamente all’essenza dell’individuo e alla concretizzazione delle aspirazioni e propensioni medesimo, fra le quali può e deve rientrare il d. all’essere famiglia e genitore.
Per quel che concerne l’art. 3 della Cost., nessuno, meglio di Piero Calamandrei, che nel suo “Discorso sulla Costituzione” affermava “Perché quando l’articolo 3 vi dice “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce, con questo, che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo, contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare, attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile, che abbia fissato, un punto fermo. E’ una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire, non voglio dire rivoluzionaria, perché rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente; ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa Società, in cui può accadere che, anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, siano rese inutili, dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità, per molti cittadini, di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della Società. Quindi polemica contro il presente, in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.”, credo, sia riuscito ad enuclearne lo spirito finalistico. L’abbattimento del divieto di inseminazione eterologa, a parere di chi scrive, consente al principio di eguaglianza materiale, nel suo incarnare il c.d. “diritto vivente”, di dispiegare con una portata dirompente e, finalmente, concreta i propri effetti: il cammino è lungo ed impervio ma nulla è precluso, perché come dice lo stesso articolo “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Per quanto, poi, l’intentio dell’art. 29 Cost. sia complessa da ricostruire, non c’è dubbio che nell’elaborazione della disposizione abbia svolto un ruolo centrale l’esigenza di individuare nella famiglia un nucleo di relazioni sociali dotate di stabilità da porre al riparo dalle interferenze degli apparati pubblici: sotto questo profilo, l’obiettivo dell’art. 29 non differisce di molto dal “rispetto della vita privata e familiare” garantito dall’art. 7 della Carta dei diritti ma ad esso si aggiunge un aspetto “positivo”, cioè il riconoscimento di un regime giuridico diretto ad assicurare la stabilità e l’equilibrio delle relazioni familiari. Mentre l’aspetto “negativo”, il rispetto della vita privata, è sicuramente tutelabile anche al di fuori del matrimonio, sia pure con qualche marginale attenuazione (penso alle verifiche della residenza anagrafica delle persone oppure a certe norme tese alla protezione dei figli nati in famiglie di fatto), l’aspetto “positivo” è invece riservato in via esclusiva alle famiglie matrimoniali. Anche in questo caso vanno compiute alcune distinzioni: vi sono relazioni familiari che prescindono dal fondamento matrimoniale (si pensi agli obblighi alimentari verso i genitori ed i fratelli, nonché all’intero complesso degli obblighi dei genitori nei confronti dei figli, anche se nati fuori del matrimonio), ed altre che sono invece conseguenze esclusive del matrimonio: alcune di queste poi (si pensi all’obbligo di fedeltà) rappresentano il risvolto giuridico del riconoscimento sociale che acquisisce la coppia sposata. Alla fine, ciò che rimane è solo questo: il significato giuridico dell’art. 29, comma 1, si riduce nel riservare lo status derivante dal matrimonio a coloro che possono e vogliono contrarre matrimonio: ma coloro che possono contrarre matrimonio sono solo le coppie eterosessuali, i cui componenti siano maggiorenni (salva autorizzazione), celibi e non legati dai rapporti di parentela, affinità, adozione e affiliazione previsti dall’art. 87 cod. civ. Come si vede, le clausole che impediscono di accedere al rapporto matrimoniale sono giustificabili o da esigenze riconducibili alla capacità giuridica di assumere in piena consapevolezza i diritti e doveri derivanti dal rapporto di coniugio, come rapporto esclusivo (divieto di bigamia), oppure dall’esigenza atavica di evitare l’endogamia. E poi c’è l’eterosessualità, aspetto che non riguarda né la capacità giuridica né l’endogamia: e neppure la volontà dei partner. La conclusione un po’ paradossale a cui si perviene cercando di assicurare all’art. 29, comma 1 Cost., un’interpretazione fedele al testo ed orientata a conferire ad esso un significato giuridico effettivo, che non si separi da quello che i costituenti potevano avere in mente, è che la disposizione costituzionale non tutela affatto l’istituzione familiare, ma solo il regime giuridico del matrimonio: anzi, più esattamente, tutela un regime del matrimonio coerente con la tradizione italiana, alla quale però si impone il fondamentale correttivo della obbligatoria eguaglianza dei coniugi, secondo quel che dispone il secondo comma dello stesso articolo. Però, nel momento stesso in cui riserva alle sole coppie eterosessuali i privilegi di stabilità giuridica e di rispettabilità sociale, nonché le regole della solidarietà e dell’eguaglianza dei coniugi, l’art. 29 Cost., così “fedelmente” interpretato, mostra tutta la sua fragilità. Posto che in tale disposizione si fonda la libertà e il diritto di sposarsi, e dare luogo così ad una famiglia “privilegiata”, ogni limitazione introdotta dal codice civile al “diritto di sposarsi” trova giustificazioni sufficienti a resistere ad un test di ragionevolezza, e non si scontra con i divieti di discriminazione contenuti nel “nucleo forte” dell’art. 3, comma 1 Cost.; ma il divieto (non esplicito) di coniugarsi imposto alle coppie omosessuali incappa invece proprio in uno dei divieti di discriminazione espressi dalla Costituzione e crea una tensione assai forte tra l’art. 29.1 e l’art. 3.1: il primo non si può interpretare senza sciogliere la difficile contraddizione con il secondo. La caduta del divieto di inseminazione eterologa, sembrerebbe aprire lo spiraglio alla possibilità di fecondazione per le coppie gay e per i c.d. “uteri in affitto” (11): l’essere famiglia è solo ciò che per esse si intende canonicamente, come ut supra escerpito dall’esegesi dell’art. 29 Cost., o è comunione di intenti, libera espressione delle proprie propensioni personali che possono convogliarsi nel voler mettere al mondo una vita?
Pure la disposizione di cu all’art. 31 Cost., esprime un favor familiae, che si riconnette al riconoscimento della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. L’attuazione legislativa di tale previsione, peraltro, gode di un’ampia discrezionalità nella scelta degli strumenti necessari per realizzare politiche sociali di sostegno in grado di favorire la formazione della famiglia. La politica di agevolazione delle famiglie numerose non intende perseguire una finalità di incremento demografico, ma un’azione di assistenza sociale. In tale direzione si muove la previsione di un sostegno alla maternità (12) e alla paternità. A tutela della maternità, intesa come «diritto ad una procreazione cosciente e responsabile» è stato riconosciuto e disciplinato l’aborto (13). Con la L. 19 febbraio 2004, n. 40, in tema di procreazione medicalmente assistita, il legislatore ha introdotto anche una organica disciplina che favorisca la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla fertilità umana: tuttavia, la legge, frutto di un iter parlamentare particolarmente complesso e di maggioranze trasversali ai due schieramenti, ha suscitato grosse polemiche per l’eccessivo rigore, per la forte tutela dell’embrione, per la chiusura nei confronti di qualunque sperimentazione o ricerca su embrioni e il concreto accesso al d. alla maternità laddove non era risolutiva della problematica l’inseminazione omologa, in quanto l’infertilità era ricollegata al partner maschile.
Il riconoscimento, infine, del diritto alla salute, ex art. 32 Cost., può imporre un intervento pubblico al fine di apprestare le strutture ed i presidii per il suo soddisfacimento: ciò significa che tutti hanno diritto ad essere curati, per cui la protezione della salute intesa come diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche forma oggetto anche di una disposizione specifica (art. 35) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nella sua accezione di rispetto di ogni individuo alla propria integrità fisica (e psichica), la tutela della salute è stata inserita anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: invero, l’art. 3 della Carta, infatti, enuncia una serie di principi che ricomprendono il consenso libero e informato della persona sottoposta a interventi medici o biologici, il divieto delle pratiche eugenetiche; il divieto di fare del corpo umano o di sue parti fonte di lucro, il divieto di clonazione riproduttiva degli esseri umani. La Carta ha cercato in tal modo di tutelare a livello sovranazionale l’emergere di nuove esigenze e di nuove libertà che vanno a costituire i diritti di cd. quarta generazione: fra questi sicuramente, l’assicurare all’individuo, nel rispetto della sua integrità psico-fisica, il d. alla procreazione ed all’accesso alle tecniche ad essa finalizzate, senza restrizioni discriminatorie, in violazione dell’art. 3 della Costituzione. Ci sono, dunque, alcuni aspetti estremamente delicati che non coinvolgono solamente la procedura medica ma anche problematiche più ampie, come ad esempio l’anonimato o meno di chi cede i propri gameti alla coppia e il diritto di chi nasce da queste procedure a conoscere le proprie origini e la rete parentale, come il fatto di avere fratelli e sorelle e potervi entrare in contatto, attraverso la possibilità di accedere ai loro dati. La prossima sentenza sulla legge 40, che affronterà il tema del divieto di ricerca sugli embrioni, verrà dalla Corte Europea sui Diritti dell’Uomo e non dalla Consulta: la Corte dovrà decidere sul procedimento “Parrillo contro Italia”, in cui Adele Parrillo, vedova del regista Stefano Rolla, deceduto nell’attentato di Nassiriya nel 2003, vuole donare alla ricerca i 5 embrioni, prodotti prima della morte del compagno, per effettuare una fecondazione assistita. Ad essa “l’ardua sentenza”, cui l’Italia, in caso di accoglimento della predetta istanza, “dovrà chinare la testa” ed adeguare la legislazione vigente.
Avv. Chiara Reposo
Avvocato in Casale Monferrato
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